In questo numero
Dicembre 2001 - n.8

“...E pace in terra agli uomini di buona volontà...”
Semplici riflessioni
GLOBALIZZARE LA SPERANZA
Accogliere l’altro nella società multietnica
Un regalo dai poveri
Vu cumprà
Non è da tutti!
Intervista a P. Giustino PRIMA PARTE
“Que linda es Cuba” (II parte)
Madonna del Sasso
Un Doposcuola a Gubbio ispirato a Don Lorenzo Milani
T U - F U
La posta di quattrochiachiere

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“...E pace in terra agli uomini di buona volontà...”

Al momento di andare in stampa, l’Afghanistan è continuamente bombardato dalle truppe USA, coadiuvate da diversi paesi europei, Italia compresa. Ci è difficile, molto difficile,scrivere queste righe di auguri natalizi...migliaia di bambini muoiono di fame, centinaia di persone sono vittime di una guerra che, inevitabilmente, sta estendendosi ben al di là dei colpevoli del tremendo attentato dell’11 Settembre. Eppure...eppure forse da questo tremendo panorama possiamo far nascere, insieme a Colui che nascerà la Notte Santa, una luce, una speranza, affinchè la pace non rimanga sulla carta, ma diventi parola viva, diventi impegno di tutti: abbiamo scelto, in questo numero, di parlarvi di accoglienza del diverso, della realtà degli emigrati, di globalizzazione dei diritti. E’ il nostro modo per dire no alla guerra, un invito a costruire la pace nella realtà di tutti i giorni, nella solidarietà con chi, a prima vista, può apparirci lontano. Il nostro modo per farvi gli auguri di un Natale vero, perchè la pace nel lontano Afghanistan dipende anche dai piccoli gesti di ognuno di noi. Mai più di oggi: pace agli uomini di buona volontà.

Auguri davvero di cuore dalla Redazione

I nostri difficili auguri per un Natale diverso dagli altri

 


"SE VOI AMATE QUELLI CHE VI AMANO…..
E SE SALUTATE I FRATELLI VOSTRI SOLTANTO"(Luca, 5)

Dopo i tragici fatti di violenza dell’11 Settembre 2001, unanime si è levata la condanna dell’integralismo e del terrorismo. Si è sottolineato anche che il terrorismo non può essere combattuto con una guerra di reazione e di vendetta.
Purtroppo la guerra, definita come operazione di polizia, ma sempre guerra con bombardamenti aerei e lancio di missili che non solo colpiscono gli obiettivi e i centri del terrorismo ma anche il miserabile popolo afgano, è scoppiata.
Noi cristiano-cattolici e credenti di altre religioni, siamo sollecitati a pregare per la pace basata sulla giustizia e sul rispetto dei diritti di ogni uomo.
La preghiera, però, se non sale da un cuore puro, è inascoltata.
Gesù dice(Giovanni 9,31): “Ben sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno onora Dio e fa la sua volontà, Egli lo ascolta.”
(Luca,6,46)”Perché mi chiamate Signore, Signore e non fate quello che vi dico?”.
Il nostro cuore è pronto a liberarsi da ogni preconcetto, da ogni intolleranza e dall’egoismo sociale e culturale? È facile, troppo di moda dire parole e parole sulla pace, affermare principi universali, protestare contro la guerra e l’ingiustizia; ma è molto impegnativa una scelta responsabile che richiede rinuncia e superamento del nostro orgoglio e del nostro egoismo per operare concretamente alla costruzione di un mondo che vive in pace.
Che posso fare quindi io che ho scelto come maestro e amico Gesù, credo nella sua parola, nella grazia dei Sacramenti e nella luce dello Semplici Riflessioni
Spirito?
Apro il Vangelo e leggo le parole del Figlio di Dio(Luca,5)”Udiste che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli. Se voi amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avrete? Sanno fare lo stesso anche i pubblicani. E se salutate i fratelli vostri soltanto, che fate di straordinario? Non fanno forse lo stesso i pagani? Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre che è nei cieli.”
E’ un invito alla carità intesa come amore senza ritorno, un incitamento ad una scelta coraggiosa, sicuramente contro la natura istintiva dell’uomo.
E’ troppo! Quel Gesù che tanto mi ama mi chiede troppo: una perfezione come quella del Padre che è nei cieli.
Rifletto.
Sarà difficile che possa giungere alla santità di Francesco, di Ubaldo, di Maria Teresa e di tanti e tanti santi, ma cercherò di impegnarmi per arrivare al livello di chi prova, alla luce del Vangelo, di esaminare a fondo il proprio comportamento nei confronti del “diverso”, di colui che viene considerato “alieno” per razza, religione e cultura, che viene emarginato, rifiutato e respinto, comportamento che può suscitare odio, violenza e un terreno fertile dove trovano seguaci i tantissimi Osama Bin Laden di Oriente e di Occidente per il loro integralismo, per il folle terrorismo e per la conquista del potere.
Con le mie piccole azioni quotidiane, alimentate dalla carità, posso contribuire insieme a tanti uomini di buona volontà a costruire una famiglia e una società in cui regni la giustizia e, di conseguenza, la pace.
Non posso essere un grande architetto operatore di pace, ma un umile manovale che porta granelli di sabbia e piccoli mattoni per l’edificazione dell’edificio della convivenza e della integrazione culturale, religiosa, razziale.
Rifletto sulle mie piccole azioni quotidiane positive, animate dalla carità, e su quelle negative, ispirate dall’indifferenza e dall’intolleranza.
Le esamino e le metto a confronto.
Un diseredato lungo la strada tende la mano. Non lo guardo, passo oltre provando rifiuto o indifferenza come il levita e il sacerdote della parabola del Buon Samaritano. Al massimo, con grande sforzo e con freddezza, gli allungo una moneta.
Invece mi fermo, lo saluto con un sorriso, ci parlo, gli faccio gentilmente l’elemosina che diventa carità.
Un negro, un “diverso” che forse è stato costretto ad abbandonare la sua terra per fame e disperazione e ha bisogno di comprensione e solidarietà, mi passa accanto. Non lo degno di uno sguardo e, se va bene, non lo osservo con disprezzo, pensando che è un intruso ed è bene che se ne torni da dove è venuto.
Invece mi fermo, lo saluto considerandolo un fratello sfortunato che ha , però, i miei stessi diritti.
Suonano alla mia porta. E’ uno dei soliti extracomunitari che cerca di vendermi cianfrusaglie e cerca di guadagnare onestamente da vivere.
Non rispondo o, se lo faccio, con un comportamento, con uno sguardo che significa “scocciatore”, compro qualche cosa per levarmelo dai piedi.
Invece apro, rispondo gentilmente, se posso soddisfo la sua richiesta con carità, altrimenti gli chiedo scusa per non poterlo fare, lo saluto con garbo.
Mi convinco sempre più che se sono azioni positive e di amore, così come dice Gesù, purifico il mio cuore e la mia preghiera, per la pace e la fratellanza, sarà soddisfatta dal Padre che è nei cieli.
Altrimenti il mio andare a Messa, il mio invocare: “Signore, Signore”, il mio pronunciare, dando la mano a chi conosco: “Pace e bene”, saranno azioni e parole senza suono, che nessuno vedrà e ascolterà.

P.P.


GLOBALIZZARE LA SPERANZA
Intervista con Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum

È piccolino, Vittorio Agnoletto, ma staresti ad ascoltarlo ore, quando ti racconta di quello che Genova è stato,quando ti parla del padre di Carlo Giuliani o della notte alla Diaz. Quando ti racconta di come più di 100 associazioni e gruppi in Italia si battano contro ogni forma di sfruttamento del lavoro minorile, per garantire il diritto di asilo ai rifugiati, per la cancellazione del debito alle nazioni più povere. E così, dopo aver pranzato insieme,gli ho chiesto di raccontarci qualcosa, per capire cosa Genova è stato, nel bene e nel male, e soprattutto per renderci conto di quanto le problematiche che lì sono emerse, ci riguardano molto più che da vicino…


Cosa ti è rimasto dentro, cosa si porta dietro Vittorio Agnoletto, quali sensazioni, stati d’animo, pensieri, sono rimasti in te dopo tutto quello che Genova è stato?

Intanto rimane sicuramente un elemento di sofferenza:questo c’è ed è inutile negarlo. Sofferenza per la morte di Carlo Giuliani, che è qualcosa che ci si porta dentro, indipendentemente poi dai dibattiti pubblici e da tutte le altre cose. Sofferenza per la violenza che si è sviluppata, per le ferite che ha aperto: abbiamo lavorato per più di un anno per arrivare a Genova con manifestazioni pacifiche e non violente e questo lavoro è stato schiacciato da una strategia precisa di una parte dello Stato che ha permesso e facilitato quello che è accaduto, ha permesso le incursioni dei black-block,li ha utilizzati contro il corteo pacifico. Grande sofferenza, dunque. Ma la seconda cosa che mi rimane è una fortissima speranza, che in questo momento è il senso anche della mia stessa vita. La speranza che quel patrimonio di idee, di unità che siamo riusciti a realizzare per Genova e a salvaguardare nel mese successivo non vada disper- so. La speran-za di riuscire a rimettere al cen-tro i contenuti.

Appunto a proposito di questo voler riportare al centro i contenuti, come si può riuscire secondo te a lavorare per calare un certo tipo di problematiche come quelle per cui il Genoa Social Forum si è battuto, nel nostro quotidiano, nella realtà di tutti i giorni, nella vita di una comunità come la nostra?

Occorre innanzitutto spingere sull’idealità, sulla motivazione etica delle cose che facciamo:io credo che quando si forniscono una serie di dati precisi, difficilmente si possa trovare qualcuno che è in grado di fornire risposte diverse dalle nostre. Quando noi diciamo che ci sono un miliardo e duecentomilioni di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno, proponiamo la tassazione delle transazioni finanziarie, proponiamo che il 7.5% del PIL sia destinato alla cooperazione internazionale, proponiamo l’annullamento del debito estero. Quali altre proposte ci sono su questo terreno? Occorre riuscire a discutere di contenuti, dunque.

La seconda cosa da fare è riuscire a legare queste grandi tematiche globali alle questioni locali. Facciamo degli esempi: il ruolo delle multinazionali è anche quello anche di sfruttare milioni di persone, quello di produrre merci negli angoli più sperduti della terra pagando quattro lire a salario, non garantendo assistenza sanitaria né tantomeno sindacale. Queste merci, quando poi vengono vendute in Italia, divengono ovviamente concorrenziali con i prodotti fatti qui e producono di conseguenza anche disoccupazione. Ecco, noi dobbiamo riuscire a convincere i lavoratori che la battaglia per i diritti di coloro che lavorano in Thailandia, nelle Filippine, è una battaglia anche per loro, che se vedono rispettati i diritti di quei lavoratori là, vedranno anche nascere un meccanismo per cui i prodotti automaticamente avranno un prezzo diverso e non produrranno dunque più disoccupazione. E soprattutto, garantire la realtà del lavoro nel Sud del mondo significa garantire in investimenti, infrastrutture, in un modello di sviluppo finalmente autonomo, e quindi non solo più in elemosina.

Questa dunque è una battaglia che riguarda tutti, e può essere un primo ragionamento concreto da fare. Oppure, individuare sul proprio territorio aziende che pratichino una produzione eticamente responsabile…io credo che ci siano moltissime cose che si possano fare sul territorio per non rimanere solo sui contenuti generali.

Un invito a globalizzare i diritti, le speranze, i sogni di ogni persona. Ma soprattutto a non lasciar correre via nulla, a far nostre le grida di chi soffre, a rendere concrete le battaglie nonviolente per chi reclama giustizia. Questo è quello che l’incontro con Vittorio Agnoletto mi ha lasciato, e questo è quello che spero queste poche righe possano lasciare ad ognuno di voi… .

Federica Grandis

Vittorio Agnoletto è nato a Milano nel 1958. Opera come medico presso un’azienda metalmeccanica a Milano. Ha svolto ruoli di direzione politica nazionale fino alla fine degli anni ‘80 nei movimenti studenteschi e giovanili della nuova sinistra e ha partecipato per diversi anni ad associazioni del mondo cattolico democratico. Nel 1987 ha partecipato alla fondazione della LILA, la lega italiana per la lotta all’AIDS, della quale dal 1992 è presidente nazionale. Dal 1989 ha coordinato i primi progetti italiani di “riduzione del danno” nel mondo della tossicodipendenza e della prostituzione. Dal 1993 all’agosto 2001 è stato membro della Commissione Nazionale per la lotta contro l’AIDS presso il Ministero della Sanità e del Comitato Nazionale di Coordinamento per l’azione contro la droga istituito dal Dipartimento Affari Sociali della Presidenza del Consiglio. Collabora con l’IOM - l’International Organization for Migration , agenzia che opera in stretto rapporto con l’ONU - in interventi nei Balcani ed in Africa. E’ stato protagonista di molte battaglie in difesa dei diritti umani tra cui la clamorosa contestazione pubblica contro il Business dell’AIDS. Nel gennaio 2001 è stato nominato portavoce della delegazione italiana al Forum Sociale Mondiale di Puerto Alegre ed è tra i protagonisti del movimento contro la globalizzazione neoliberista.

GLOBALIZZAZIONE, QUESTA SCONOSCIUTA…

Se ne sente parlare praticamente dovunque, tutti pronti a condannare o a difendere, tutti comunque sempre pronti a dire la nostra.

Ma questa benedetta globalizzazione…che cos’è ??. Chi vi scrive ha partecipato ad una tre giorni di riflessione, o meglio, di alfabetizzazione, organizzata dal Gruppo Abele di Don Luigi Ciotti, durante i quali si è cercato di capire cosa effettivamente la globalizzazione sia e quanto (ma quanto!!) ci riguardi da vicino.
Cerchiamo di fare il punto,per capirne un po’ di più…
Il vocabolario definisce la “globalizzazione” come una “crescente interdipendenza della popolazione mondiale in campo economico, tecnologico, culturale e politico”.
Si tratta senza dubbio di una rivoluzione, anzitutto di tipo spaziale: siamo di fronte ad un momento di svolta per cui il nostro spazio sociale si sta estendendo all’intero pianeta,e sta allungando le proprie propaggini in continenti che fino a pochi anni fa ci apparivano lontanissimi. Alcuni sociologi parlano addirittura di “restringimento del pianeta”:la distanza oggi non separa più, per effetto di quella doppia rivoluzione tecnologica che si è avuta nel campo dei trasporti e delle telecomunicazioni.Lo spazio planetario che fino a pochi decenni fa ci appariva quasi infinito, dunque, oggi si è notevolmente ristretto,e come tale appartiene ad ognuno di noi.
Qual ‘è il problema?Il problema è che a questo estendersi dei confini non si sta accostando la formazione di una società civile…planetaria,ed è proprio questa la sfida a cui oggi si dovrebbe puntare. Vediamo quali sono gli ostacoli: primo, questo spazio globale che si è venuto a creare non è omogeneo, in quanto è artificiale, creatosi cioè unicamente grazie alla potenza delle macchine e del denaro. Secondo,questo stesso spazio è di tipo piramidale:basti pensare al fatto oltre il 65% dei flussi di denaro che circolano al mondo restano nella triade formata da America, Europa e Giappone, o alle disponibilità energetiche nel mondo: un americano ha a disposizione 100.000 chilocalorie al giorno, un etiope ne ha poco meno di 500. Per non parlare poi del fatto che le 225 persone più ricche del mondo possiedono 1.000 miliardi di dollari, che corrispondono al reddito medio di 2 miliardi di persone. La sfida di chi si batte contro questo tipo di globalizzazione (contro QUESTO tipo! Vittorio Agnoletto, leader del Genoa Social Forum,definisce la sua “non una lotta contro la globalizzazione, ma una battaglia per una globalizzazione dei diritti, che sia in grado di ascoltare le troppe grida di povertà che ci arrivano da troppe parti del mondo, che passi, dopo Genova, dalle urla alle parole”), sta appunto nel tentativo di costruire questa società civile planetaria, che sia in grado di darsi una rappresentanza, di difendere i propri interessi, di ricostruire ciò che l’applicazione della sola legge economica troppo spesso distrugge.


Accogliere l’altro nella società multietnica

Da tempo nella nostra Caritas parrocchiale era emersa l’esigenza di organizzare alcuni momenti formativi, nella convinzione che l’urgenza con cui alcuni problemi della società in cui viviamo si presenta anche nel nostro ambiente esige una riflessione ed una presa di coscienza da parte di tutta la comunità. In modo particolare, ci sollecitava a questa riflessione, la presenza crescente di immigrati nel nostro territorio: in un numero sempre maggiore, essi vengono infatti ad esprimere la proprie necessità anche nel nostro Centro di Accoglienza parrocchiale, aperto ormai da parecchi mesi tutti i martedì mattina. Presso la sala di S. Agostino,abbiamo dunque organizzato un primo incontro formativo, aperto a tutta la comunità parrocchiale e cittadina sul tema “Accogliere l’altro nella società multietnica”. L’incontro si è svolto in collaborazione con l’Azione Cattolica, la Cooperativa “Il Gabbiano”, il Gruppo Operatori Culturali.
Hanno accolto generosamente l’invito ad introdurre la nostra riflessione il Prof. Roberto Gatti dell’Università di Perugia e Don Elio Bromuri, direttore del settimanale “La Voce” e presidente del Centro di Accoglienza di Perugia che malgrado l’inclemenza del tempo, hanno tenuto fede al loro impegno. Ha introdotto l’incontro Pio Benedetti, coordinatore della Caritas parrocchiale, che ha messo in luce la centralità del tema e l’esigenza di proporlo pubblicamente nella consapevolezza che la conoscenza e riflessione sulle problematiche emergenti sono un aspetto fondamentale nella ricerca di adeguate soluzioni sul piano operativo.
E’ poi intervenuto Roberto Gatti che ha affrontato il problema nella sua dimensione sociale e politica, visto che la presenza, crescente, di immigrati di origini, culture, religioni diverse ci pone di fronte ad una emergenza nuova, che mette in discussione le basi stesse della nostra convivenza di cittadini delle società occidentali. Accogliere gli immigrati, infatti, non è solo un problema di cortesia, di calore umano, di concessione di alcuni diritti sul piano civile; essa esige ed esigerà sempre più nel futuro un qualcosa di molto più impegnativo, vale a dire un riconoscimento di diritti anche nella sfera pubblica. In particolare, secondo Gatti, la sfida che ci attende è quella di riuscire a coniugare e risolvere in modi nuovi il rapporto tra uguaglianza e differenza, di cercare nuove strade, senza sacrificare né i fondamenti dello Stato di diritto né i diritti universali di ogni persona.
E’ poi seguito l’intervento di Don Elio Bromuri che, come ci si poteva attendere vista la sua ampia e profonda conoscenza del modo degli immigrati, delle loro culture, delle loro religioni, ha posto con forza l’accento su alcuni problemi concreti che emergono nell’incontro fra culture diverse; ha messo in risalto la naturalezza, per così dire, con cui il cristiano deve accogliere lo straniero secondo quanto presente nelle Scritture e secondo l’esempio di Cristo stesso. Nello stesso tempo ha però insistito sull’esperienza da parte nostra di conoscere bene, e non in modo approssimativo, le differenza fra noi e chi ci vive accanto, con una cultura ed una religione diverse. A noi credenti si chiede in sostanza di dialogare con gli altri a livelli profondi, di vivere la nostra identità, di comunicare la forza attrattiva di Cristo.
L’incontro è stato vivace e partecipato e ha visto la presenza di numerosi operatori pastorali e del Vescovo Mons. Pietro Bottaccioli. Quel che è emerso con forza è che una convivenza pacifica, arricchita anche dalla presenza di componenti culturali diverse, esige un atteggiamento di dialogo a tutti i livelli, fra noi e con gli altri, che sarà possibile solo nella misura in cui saremo consapevoli della ricchezza, pur nella differenza, di ciascuna identità ed appartenenza etnica, religiosa e culturale. Ciò nella consapevolezza che ogni intolleranza, anche la nostra, è spesso segno di fragilità e di debolezza e in ogni caso non serve a risolvere i problemi. Lo spirito che ha animato tutti gli interventi è stato molto costruttivo, con uno sguardo a queste emergenze, pur nella loro complessità, nel segno della speranza di fronte alle nuove sfide che ci attendono. Anna Maria Biraschi

 


Un regalo dai poveri

Racconto di un giovane della diocesi eugubina in missione tra i campesinos delle Ande Peruane.
Il 21 luglio scorso, dopo un cammino di preparazione fatto di momenti di preghiera e di lavoro qui in Italia, siamo partiti per il Perù.
Siamo stati 40 giorni sulle Ande e abbiamo speso un po’ del nostro tempo lavorando per i campesinos.
Inizialmente abbiamo formato due gruppi. Il gruppo di Patara, con l’obiettivo principale di portare l’acqua potabile nelle famiglie, e quello di Sanachgàn, con l’impegno di proseguire con l’aiuto alle famiglie povere, già avviato dall’attività dell’oratorio lì presente.
Io ho fatto parte del gruppo di Patara, un villaggio che dista 8 ore di cammino dalla missione principale di Piscobamba.
Subito si sono presentate le prime difficoltà, le distanze innanzitutto, con periodi di cammino estremamente lunghi e faticosi, poi l’altura e il fiato subito corto dopo pochi metri o piccoli sforzi, le condizioni precarie a cui dovevamo adattarci (l’acqua era poca e a volte bisognava attingerla dalle stesse pozze a cui si abbeveravano gli animali, la cucina fatta solo di tre grandi pietre messe per terra, il dormire in terra con l’inaspettata compagnia di qualche topo…), fortunatamente abbiamo saputo subito adattarci a tutto questo.
In realtà quello che abbiamo fatto è stato entrare nelle case della gente, insegnare a pregare ai bambini, abbiamo cantato e giocato con loro, abbiamo provato, non sempre riuscendoci a tendere la mano a chi chiedeva il nostro aiuto. Io poi come medico ho cercato, con i pochi mezzi a disposizione, di fare fronte alle esigenze di tipo sanitario delle persone del villaggio.
Quello che ci portiamo nel cuore non sono solo i volti delle persone e gli occhi dei bambini, ma anche l’opera dei sacerdoti e delle famiglie missionarie che vivono lì, regalando ogni giorno la loro vita agli altri.
Vivere questi giorni, conoscere i poveri è stato un regalo bellissimo, un regalo del Signore.


F.F.e G.B.


Vu cumprà


Cruda esperienza raccontata da un extracomunitario che, sicuramente, ci fa conoscere e capire una realtà che forse a molti di noi sfugge o sembra altra cosa.
Il pezzo è stato trovato su internet in una lista di discussione che si chiama Gargonza.

Gianni Vantaggi

Vu cumprà
Primo maggio. Questo giorno di folle che assalgono la città è un buon giorno per me.
Qualunque cosa che sa di Venezia si può vendere. Anche se fabbricato in Cina. Costato l’infanzia di qualche bambina. Il mio borsone riparte insolitamente semivuoto. Ed il mio portafogli pieno. Per una volta posso entrare nell’hostaria che ho sempre visto da fuori, affollata di veneziani allegri. Entrando sento sospendersi i soliti commenti acidi sullo schifo che quelli come me portano alla loro bella città. Penso che si scordano quanto gli stessi veneziani hanno loro reso brutto il mercato riempiendo di magliette e bandiere da football le bancarelle.
Mi concedo una coca. Seimila lire per un liquido alla spina che ne costa meno di cento. Sul prezzo non c’è trattativa ovviamente. Mentre bevo alzo gli occhi e alla TV parlano di Emma Bonino. Sta facendo lo sciopero della sete da 4 giorni e ripenso alla mia sete durata i giorni del viaggio fino alla nave. La mano con il bicchiere di Coca si ferma. Nei miei occhi il sole della pista, unico bagaglio un sacchetto mezzo rotto, l’attesa del camion che aveva una sola tanica d’acqua calda e fetida per oltre 600 chilometri di viaggio e la prima di tante liti coi compagni, per niente compagni, di sventura. Non avevo scelta. Siccità e predoni avevano decimato i pochi animali del mio villaggio. I pozzi avvelenati. Nessuno si occupava di noi, superstiti per caso, il missionario che ci faceva visita era morto in un incidente e il suo rimpiazzo si era ammalato e stava in chissà quale ospedale.
La vita in Africa dipende dalle cose più strane.. un insetto, un temporale che tarda, un temporale che viene, un missionario che non arriva, una banda di predatori se hai più pane di loro, il passaggio di un’altra tribù e puoi trovare la tua famiglia a pezzi.
Ed è per questo che sono partito, sapendo di non tornare più.
Il giorno che della mia famiglia erano rimasti solo pezzi. Li ho visti solo da lontano, tra il fumo che risaliva dalle poche cose infiammabili che ancora ardevano.
Nessuno ha insegnato ad un Africano l’addio alla sua terra, perché la terra d’Africa non è tua anche se non ti abbandona mai, fai parte di essa, degli alberi, delle sue ombre, delle sue notti. Cresci e vivi con la paura in te.
Paura di tutto e di tutti. Paura dello stregone, della circoncisione, della caccia, della guerra. Ho sentito gli europei parlare di mal d’Africa.
“Benedeti” come dicono qui a Venezia.
In fondo sono stato fortunato. Non so cosa mi ha portato nella città più bella del mondo, per assurdo così piena d’acqua che la cosa diventa persino comica se penso che alcuni dei miei compagni di sventura sono morti di sete in quegli infernali 600 chilometri. Ed era solo l’inizio di un viaggio che non finirà mai.
Guardo gli uomini nell’hostaria. Hanno chiuso le loro botteghe, come me.
Solo che la mia sta in un borsone e deve sfuggire ai vigili. La loro sta in una calle e deve sfuggire alla finanza. Abbiamo lo stesso destino in fondo.
Solo che loro stasera trovano una casa, forse una famiglia, una televisione accesa, un letto. Un letto. L’ho desiderato per due anni un letto, me lo sognavo come quelli delle pubblicità ma il destino mi ha presentato un materasso steso a terra in mezzo ai rifiuti e un odore di escrementi che mai in Africa avevo sentito, neppure dagli elefanti.
Voglia di fuggire ma dove?
Nei campi di pomodori, rossi tra il verde come bianco era il cotone dei miei avi americani. A legare ferri delle armature di un pilone d’autostrada a 70 metri di altezza. Sarebbe stato bellissimo se ci fosse stata una paga, ma 14 ore di vertigini per 600.000 lire avrebbero ucciso anche un merdoso elefante.
Ed ho imparato da questa gente, tra le tante cose, che sono un uomo, non una bestia, per loro sarò brutto, nero come il carbone ma con un cervello che vede, ricorda, pensa, soffre, ride, ama.
L’amore. Le nostre donne, se e quando arrivano qui, non sono per noi.
O se lo sono è solo per pochi. Nulla abbiamo di nostro, neppure la vita.
Vedo donne bellissime, bianche, bionde, che si chinano sul mio negozio mostrando i loro seni che a volte mi sembrano palpitare.
Vedo madri che accompagnano bambini e li distolgono dal guardare i nostri oggetti.
Vedo vecchi col bastone che entrano nella banca dove ritirano la pensione ed i loro occhi timorosi all’uscita.
Loro un futuro ce l’hanno, e questo rito ne fa parte, l’insicurezza di avere una fonte sicura di soldi. Dicono che è la restituzione di ciò che hanno dato nella loro vita. Anche se alcuni non hanno dato proprio nulla, se non il loro tempo, hanno sempre preso e continuano a prendere.
Pensare al futuro è per me come pensare al passato. Non so neppure come sarà domani. se pioverà, se farà caldo o freddo figurarsi vedermi da vecchio.
Se tra un mese camminerò su una spiaggia in mezzo a lucide donne in topless ed i loro figli urlanti e arroganti. Se sarò rimpatriato verso una patria che non esiste.
Non so neppure dove mettere i soldi che ho nel portafogli.. dovrò stare sveglio come tutti quelli che come me hanno avuto una buona giornata.
Non potrei avere un conto corrente. Dicono che ci sono delle nuove banche per noi. Ma ci vogliono i documenti. Senza documenti potrei solo versarli i soldi. Ma a ritirarli..
Che idee sceme mi vengono in mente. La Coca fa il suo effetto. O sarà l’euforia di una giornata fortunata.
Se lo è stata non è per me, perché domani il grossista napoletano vedendo che ho venduto molto mi chiederà più soldi per la nuova merce. Noi neri trattiamo al ribasso, i bianchi con noi, sempre al rialzo.

Uno dei tanti vù cumprà


Non è da tutti!

Lo scorso 3 novembre, la nostra chiesa di S. Agostino in Gubbio è stata protagonista di un felice evento: la presentazione del libro-guida, raffinata opera di Fabrizio Cece ed Ettore A. Sannipoli, affiancati dal fotografo Fabrizio Calzuola e dalla direzione creativa di Federico Venerucci (GV & Partner). Tutte le persone volenterose nella parrocchia si sono mobilitate per una buona riuscita dell’evento. Sono intervenute diverse autorità. Dapprima il nostro vescovo mons. Pietro Bottaccioli ha salutato gli astanti auspicando che l’occasione segni l’inizio di una rinnovata e meritata attenzione alla nostra bella chiesa. L’avesse mai detto! Un coro unanime si è levato in suo accordo da parte degli altri invitati… c’è solo da sperare che questa volta tra il dire e il fare non ci sia di mezzo il solito mare della burocrazia! La vicesindaco dott. Palmira Barchetta ha proseguito raccontando i suoi trascorsi giovanili nella parrocchia dove ha imparato principi universalmente validi nella vita e nel lavoro. Le ha fatto eco P. Giovanni Scanavino, priore provinciale degli agostiniani d’Italia, richiamando tramite la bellezza ai valori profondi della persona, spesso coperti da una coltre di quotidiana preoccupazione. I nostri padri dell’Ordine hanno voluto raffigurare la vita di Agostino e dei santi che lo hanno seguito, allo scopo di fornire modelli di vita esempi di cuori nostalgici ed assetati di Dio, centrati in ciò che davvero conta e permane.
Belli anche gli interventi dell’assessore alla regione Gianpiero Bocci, di Giordana Benazzi, direttore storico dell’arte per la sovrintendenza dell’Umbria e di Ettore Sannipoli, che hanno saputo introdurci al gusto e all’apprezzamento dei gioielli della chiesa.
Ora è a disposizione di tutti un’opera di notevole levatura scientifica e al contempo di gradevole stile divulgativo, che non solo contribuirà a diffondere il valore artistico della nostra chiesa, ma anche costituirà un ottimo strumento di catechesi e di formazione religiosa per quanti, leggendo, scopriranno molte delle motivazioni e finalità che spinsero i nostri predecessori a consegnarci un tale monumento di fede. Oltre al libro sono stati stampati depliant e biglietti per corrispondenza, ulteriori strumenti di rilancio di S. Agostino.
Tutto questo… perché?
I più maligni senz’altro potranno pensare ad interessi economici o simili, lasciamoli pensare. Ma per i più vicini e sensibili, quelli legati e dediti al bene della parrocchia, le parole spese dagli illustri ospiti non sono scivolate via nel senso di vuoto e di inutilità. Un libro d’arte, non per decantare il vano, non per distogliere il cuore dalla dimensione religiosa né tantomeno per svendere una chiesa al prezzo di un museo. Un libro d’arte, invece, per ritornare ad apprezzare il gusto ed il significato del bello. Proprio in favore dello spirito dell’uomo. Biblia pauperum era definita l’arte in passato: essa è un messaggero divino; non soltanto uno stimolo del senso estetico, ma un richiamo dell’anima ai valori tanto delicati ed elevati del cuore, ben più importanti dell’utile e del tecnologico. La bellezza è un tema assai caro a S. Agostino, il “ Dottore della Grazia “ e se un libro ci aiuta a riscoprirla… Deo Gratias!

Fra Francesco Giuliani


Intervista a P. Giustino PRIMA PARTE

Questa intervista è stata fatta dall’avvocato Lamberto Padeletti, membro uscente del Consiglio Pastorale della Parrocchia di S.Agostino e missionario laico nella missione cittadina del Giubileo 2000.


D. A 5 anni dalla nomina a parroco di S. Agostino tentiamo di fare un primo
bilancio del tuo ministero pastorale.
R. Sono contento di questa conversazione.

D. Quale è stata la prima cosa bella che hai trovato in parrocchia?
R. La prima cosa bella che ho trovato, venendo qui, è stata il calore con cui la gente mi salutava, mi veniva a stringere la mano; naturalmente c’era un po’ di curiosità, ma quel presentarsi della gente, quella voglia di conoscermi mi ha colpito.

D. Quale è stata la cosa che ti ha dato fastidio?
R. La cosa che mi ha dato fastidio, proprio a pelle, è che si fumasse dappertutto. Un altro fastidio a pelle: i frammenti di calcinacci che cadevano dal tetto all’interno della chiesa. Mi ricordo la prima eucaristia che ho celebrato insieme con P. Renato sull’altare c’era un tappeto di polvere che proveniva dal tetto.

D. Che parrocchia hai trovato all’inizio del tuo ministero pastorale?
R. Io venivo da un ‘esperienza di sacerdozio vissuto in un santuario; era la prima volta che mi trovavo alla guida della parrocchia. Per cui la scelta è stata quella di entrare in punta di piedi cercando di conservare tutto quello che c’era, che era stato costruito dai sacerdoti precedenti, di capire la realtà in cui mi trovavo. Questo è stato il mio lavoro nei primi due anni di permanenza qui a Gubbio.
Una delle mie prime scelte che ho fatto è stata quella di curare la presenza
dei bambini intorno all’altare perché durante le messe festive non c’era mai nessun bambino intorno all’altare. Ricordo, anche, che era un via vai continuo di extracomunitari che chiedevano, a volte in maniera arrogante, l’elemosina. Questa esperienza mi ha fatto maturare la convinzione che era necessario creare un gruppo caritas e che era pure necessario trovare il modo di collaborare con le altre parrocchie per affrontare insieme questo problema.
Siccome i locali della radio erano praticamente abbandonati e ridotti a magazzino, mi venne l’idea di trasformarli nella sede della Caritas parrocchiale dove i laici avessero un punto di riferimento per aiutare la missione della chiesa nel campo della carità.

D. Come tu hai detto, essendo stato nominato per la prima volta parroco, quali sono state le tue certezze e le tue preoccupazioni.
R. La certezza con cui sono venuto qui era che stavo ubbidendo a quello che mi veniva chiesto dai miei superiori; mi è stato chiesto di venire a Gubbio dall’allora provinciale P. Gianfranco proprio il giorno in cui avevo fatto i voti castità, di povertà e di obbedienza il 4 ottobre, il giorno di S. Francesco. Mi costò molto, umanamente, lasciare il santuario di Cascia e tutta l’attività che lì facevo. La certezza era che venivo qui a Gubbio in spirito d’obbedienza e di fede. E poi la certezza del mio sacerdozio, cioè la certezza che dovunque mi mandavano volevo vivere il mio sacerdozio. Di queste due cose ero sicuro dentro di me. Per il resto, umanamente non mi sentivo attrezzato, per cui all’inizio ho ascoltato i laici che facevano catechismo, i ministri della comunione che c’erano allora, mi sono fidato di Umberto Caioli che curava la parte economica.

D. A questo proposito, i laici che hai trovato: un giudizio.
R. Ho trovato persone impegnate in parrocchia molto generose, soprattutto di una certa età, pensionati che magari non avevano preparazione teologica e spirituale ma che volevano bene alla chiesa, che erano capaci di sacrificio personale; mi riferisco alle donne che facevano le pulizie della chiesa ogni settimana.
Notavo, però, un deficit di formazione nei laici i quali volevano bene alla chiesa, si sporcavano le mani ma a volte con poca preparazione.

D. In questo periodo alla guida della parrocchia, avrai preso molte decisioni, alcune delle quali sicuramente non facili. Quali sono state?
R. La decisione più grande è stata quella riguardante l’oratorio. Questa vicenda sarebbe lunga da raccontare. In breve, quando siamo arrivati qui a Gubbio io come parroco, P. Benedetto come superiore e vice parroco e P. Jhon abbiamo trovato un oratorio lasciato a se stesso, ma non per cattiva volontà di P. Renato o di qualcun altro. P. Renato negli ultimi tempi era solo qui; portava avanti da solo la parrocchia. Almeno così ci è sembrato a noi. C’era nell’oratorio una specie di anarchia. Per cui ho cominciato, d’accordo con P. Benedetto, a riprendere le redini in mano ma siamo stati percepiti come carabinieri e come i nuovi arrivati che avevano mandato via P. Renato. Io invece ero venuto qui in obbedienza alla volontà di Dio. Siccome poi dentro l’oratorio sono avvenuti episodi spiacevoli: si scommettevano soldi, le bestemmie non ne parliamo, abbiamo convocato le famiglie e parte del consiglio pastorale di allora ed abbiamo deciso di chiudere l’oratorio. Tra tante polemiche da parte delle famiglie della parrocchia abituate ad avere l’oratorio aperto tutti i giorni abbiamo preso questa decisione: è stata la decisione più impopolare che ho preso. Però non mi pare di averla presa avventatamente ma dopo ripetuti tentativi di scongiurare la chiusura coinvolgendo le famiglie. Mi ricordo in un paio di riunioni che abbiamo chiesto quali erano i genitori disposti ad aiutarci e veramente di persone disponibili non ne vennero fuori.

D. Che influenza hanno avuto nelle tue decisioni i laici che hanno collaborato con te?
R. Se il consiglio pastorale di allora avesse avuto forse più decisione, più voglia, probabilmente avremmo potuto affrontare meglio il problema della pastorale giovanile. Sulla vicenda dell’oratorio il consiglio pastorale assunse una posizione di non immischiarsi troppo e quindi io feci affidamento sull’aiuto di P. Benedetto.
Sulla catechesi ai bambini ed ai ragazzi in preparazione alla prima comunione ed alla cresima, ci fu un’ampia discussione in seno al consiglio pastorale e con i catechisti stessi e ci furono posizioni divergenti. C’era chi voleva uno stop di un anno della catechesi e dell’amministrazione della comunione e della cresima per dedicarsi alla formazione dei catechisti. Ora che ci fossero carenze nei catechisti in termini di capacità, di preparazione, eravamo tutti d’accordo, ma interrompere per un anno l’amministrazione della comunione e della cresima non sarebbe stato compreso dalla maggior parte delle famiglie che non frequentano la parrocchia; non sarebbe stato facile spiegare quello che stava succedendo. Ed allora si prese la decisione di migliorare la qualità della formazione dei catechisti e quindi di rinnovare con gradualità la scuola catechistica. Fu molto di aiuto il corso per operatori pastorali della diocesi per tutte le parrocchie dove hanno partecipato 25 persone di S. Agostino fra cui parecchi catechisti.
In parrocchia abbiamo cominciato ad organizzare incontri di formazione tre volte all’anno ed una giornata di ritiro spirituale. Nel frattempo, ho cercato di inserire nel gruppo di catechisti qualche catechista adulto, che fosse papà o mamma, come Frati Andrea e la moglie Sonia, De Gennaro Gianluca e la moglie Anna.
Non grandi cose ma qualche piccolo segno di rinnovamento c’è stato.

D. Non pensi che ancora i laici della parrocchia hanno un residuale senso d’inferiorità nei confronti del sacerdote che viene messo sul piedistallo e a cui viene delegato buona parte dell’attività pastorale?
R. Sono pienamente d’accordo nel senso che l’insegnamento del Concilio Vaticano II non è ancora veramente penetrato nella vita quotidiana della nostra parrocchia. Faccio un esempio: quando il Vescovo, in occasione del giubileo del 2000, ci ha chiesto di far gestire ai laici la missione popolare attraverso il porta a porta, l’organizzazione dei centri d’ascolto, è stato evidente lo smarrimento dei laici. Lo stesso consiglio pastorale sembra che non possa camminare se il motore non è il parroco; non dovrebbe essere così. Un altro esempio forte, questa volta positivo, che mi conferma in questa convinzione è stata l’esperienza molto interessante della pastorale dei fidanzati. Due o tre famiglie della parrocchia hanno accolto il mio invito a darmi una mano in questo campo, si è creato, anche grazie all’aiuto dell’Ufficio diocesano per la pastorale familiare, un gruppo di diverse famiglie che hanno fatto fare alla pastorale dei fidanzati un salto di qualità. Le famiglie Grandis, Fagiani, Bazzucchi, Lina e Luigi, Rodolfo e la moglie, hanno organizzato un corso di preparazione dove oltre ai contenuti vi è stata un’accoglienza cordiale e calorosa dei fidanzati i quali hanno avvertito la presenza di famiglie nella parrocchia e non solo quella del sacerdote. Inoltre un salto di qualità come metodologia e gestione degli incontri.
Un esempio, questo, che ci sta a dimostrare che se ai laici preparati viene data una responsabilità pastorale le cose migliorano sensibilmente.
Però anche qui ci vuole gradualità sia perché i laici preparati sono pochi sia perché la comunità cristiana ha bisogno di fare piccoli passi per volta; messa davanti d’un colpo a cambiamenti repentini può trovarsi male.
Ora questa esperienza nuova della pastorale dei fidanzati va estesa alla pastorale giovanile ed a quella familiare.

Padre Giustino CASCIANO
E’ nato il 16.05.1955 ad Agnone (IS). Ha celebrato la professione religiosa nell’ordine agostiniano a Roma l’08.12.1979 ed è stato ordinato sacerdote il 21.12.1980 nella parrocchia di S.Pietro a Terni. Per tredici anni ha fatto parte della comunità dei frati del Santuario di S.Rita a Cascia durante i quali ha svolto anche l’ìncarico di Rettore del Santuario stesso.
Dal novembre 1996 è parroco di S.Agostino di Gubbio.



“Que linda es Cuba”
(II parte)


Con la seconda parte del racconto del mio viaggio a Cuba cercherò di farvi dimenticare per un attimo i rigori del nostro inverno infatti: il ricordo del calore, del carattere sociale e positivo degli abitanti, sono secondo me l’unica ricetta per vincere qualche momento di depressione per tutti coloro che, come il sottoscritto, preferiscono alle attuali rigide temperature il caldo sole dei tropici.
Come dicevo il popolo cubano è una esplosione di razze, si va dal nero al biondo passando per il meticcio. Non esiste alcuna forma di razzismo, questo ha fatto del cubano un popolo unico ed unito. Questa condizione si può agevolmente constatare andando a visitare una scuola cubana. Il solito Giancarlo ci fece partecipare alla donazione di una partita di penne e quaderni che era riuscito a far pervenire dall’Italia. Ebbene in questa maniera passando di classe in classe in una scuola elementare abbiamo potuto ammirare la loro organizzazione scolastica e la sana educazione impartita ai ragazzini, dove il colore della pelle sembrava solamente dare più allegria alle scolaresche.
Per far fronte al duro embargo imposto dagli stati Uniti, da alcuni anni, Fidel Castro ha aperto l’isola al turismo e ha varato alcune riforme di marca moderatamente liberista. Nel bene e nel male la rivoluzione ha aiutato la cultura. Solamente nella capitale ci sono una cinquantina di compagnie teatrali e altrettante di balletto e di folclore afro cubano. Senza contare le decine di gallerie d’arte e di grafica. Ma è alla musica che spetta la parte del leone. A Cuba su 12 milioni di abitanti ci sono 12 mila musicisti professionisti. Inutile dire che nel corso nel nostro viaggio abbiamo avuto modo di incontrare molti altri turisti italiani alcuni dei quali, i più presuntuosi e superficiali, alloggiati in lussuosi hotel, di tutto quello che ho appena detto hanno avuto modo di apprezzare solamente del loro viaggio le favolose discoteche e le splendide ragazze dell’isola.
Un vero peccato, fare tanta strada solamente per queste cose. Cuba è l’isola che non stanca mai, in 15 giorni ci ha sempre continuamente sorpresi, e l’avvicinarsi della data di partenza è l’unica cosa che riusciva a darci tristezza. Si è felici con poco a Cuba, si è felici per il sole, per il mare, perché ogni giorno è uno spettacolo nuovo da vivere, perché si è coinvolti e protagonisti e non semplici spettatori. Chi dirotta su Cuba può far combaciare due passioni, l’irresistibile voglia di mare, che qui offre fondali multicolori, con l’amore per i ritmi della salsa, per il rum, per i sigari e le splendide città coloniali. Di ritorno da Cuba ci si sente depurati dalle “tossine” che inquinano la nostra vita quotidiana. Tutti buoni motivi per andare a Cuba, da single, in coppia e con tutta la famiglia.

Hasta siempre
Raoul Caldarelli


Cocktail consigliato CUBA LIBRE:
per prepararlo in casa ci vuole poco. E’ una bevanda dissetante fatta con due ingredienti simbolicamente opposti: il rum trasparente, invecchiato al massimo tre anni e la Coca-Cola. In questo cocktail vince l’anima americana: 2/3 contro 1/3 del liquore locale. Come tocco finale, una spruzzata di lime o una fetta di limone.


Madonna del Sasso


La chiesetta della Madonna del Sasso, è incastonata, come una gemma, nella gola tra il Cimitero e il Parco di Coppo, sulle rive del torrente Zappacenere, che ha la sua sorgente a poche centinaia di metri più a monte.
Originariamente essa era una piccola edicola edificata a testimonianza di un fatto prodigioso che vide coinvolto un cacciatore che era rimasto illeso dallo scoppio del suo fucile e che per riconoscenza, dipinse, egli stesso, l’immagine della Madonna col Bambino su di una roccia, ed è da questo che viene il nome: Madonna del Sasso.
In seguito l’edicola fu ampliata e trasformata in chiesetta, anche per altri fatti, che si dice siano accaduti successivamente, come quello del viandante che sorpreso da una tormenta di neve, in piena notte, riuscì a sfuggire alla tormenta trovando rifugio in quel luogo da cui aveva visto provenire della luce data dall’immagine illuminata della Madonna, oppure il fatto di quel contadino che percorrendo la stretta strada, in prossimità della chiesetta, precipitò nel burrone sottostante, con carro e buoi ma egli rimase miracolosamente illeso. Questi sono racconti tramandati da generazioni che comunque fanno capire la grande devozione della gente per questa immagine della Madonna dipinta sulla roccia, devozione che era manifestata con la celebrazione in suo onore di una festa che avveniva nei primi giorni di Settembre.
Negli anni 50-60 tale celebrazione cadde in disuso anche per l’abbandono della zona da parte dei contadini. Nel 1981 la festa è stata ripristinata, grazie ad un gruppo di persone della Parrocchia di S.Agostino soprattutto del Crocifisso, che ha anche allestito, nelle vicinanze della chiesetta, un piccolo parco, aperto a tutti, perché la gente vi si potesse ritrovare in amicizia.
I miglioramenti apportati alla chiesetta e dintorni (tetto, impianto per l’energia elettrica, tavoli, panche, ecc) sono derivati da quanto si ricava dalla festa che ormai, tradizionalmente, si celebra la prima domenica di settembre.
Con grande soddisfazione, inoltre, il Comitato patrocinatore della festa è riuscito a far eseguire il restauro del dipinto e della cornice dell’immagine della Madonna del Sasso.
Tuttavia c’è da aggiungere che purtroppo ultimamente sono avvenuti dei furti da parte di ignoti, che hanno trafugato dall’interno della Chiesetta: il fucile che scoppiò in mano a colui che costruì l’edicola e dipinse l’immagine della Madonna e due angioletti in legno posti ai lati dell’altare. Nel parco adiacente sono stati fatti anche degli atti vandalici: rottura dei tavoli e dei sedili di legno.
Ci auspichiamo che queste cose non accadano più e confidiamo nel buon senso e soprattutto nella buona educazione di chi frequenta questo luogo. Arrivederci alla festa del prossimo anno, vi aspettiamo numerosi.

Il comitato promotore della
Festa Madonna del Sasso


Un Doposcuola a Gubbio ispirato a
Don Lorenzo Milani


A partire da ottobre di quest’anno a Gubbio in via del Borghetto n°9( Madonna del Ponte) inizierà un Doposcuola per bambini e ragazzi delle scuole elementari e delle medie ispirato allo stile e alle intuizioni contenute nell’esperienza educativa di Don Lorenzo Milani. Il Doposcuola che si svolgerà dalle 15.00 alle 17.45 di tutti i giorni della settimana ( esclusa la domenica), sarà diviso in due momenti: il primo dedicato ai compiti scolastici e il secondo dedicato al gioco e all’animazione dove gli educatori insieme ai bambini e ai ragazzi, tenteranno di dare vita a un modo nuovo di fare scuola.

Ispirarsi alla scuola di Barbiana non significa certo avere la pretesa di aver capito o di possedere quanto Don Lorenzo Milani diceva e scriveva circa il complesso e affascinante mondo della scuola ( operazione questa che richiederebbe più vite di studio e di esperienza insieme ai ragazzi), bensì significa avere il desiderio di tentare un percorso e uno stile ben precisi, che testimonino un’attenzione particolare al ragazzo, al suo mondo e a quanto accade intorno a lui e a chi, accanto a lui, si propone come educatore. Tentare questo passo del Doposcuola non significa essere pronti ad insegnare qualcosa, ma avere il desiderio di continuare a scoprire insieme ai ragazzi e alle ragazze la realtà delle cose e dell’uomo. Significa dare ai ragazzi degli strumenti per orientarsi nella vita di tutti i giorni, sforzarsi ad ascoltarli, proponendogli delle soluzioni ed accogliendo le loro. Significa, per noi che ci impegneremo in quest’avventura educativa, metterci in gioco, concepire la cultura non come un complesso d’informazioni e di nozioni da insegnare, ma come un “qualcosa” di vivo da costruire insieme. Lo stupore e la meraviglia, infatti, con cui i bambini guardano le cose diventano, in questa prospettiva, una scuola di vita per noi che ci proponiamo come educatori, con le nostre competenze e la nostra preparazione.

Oltre la didattica e il metodo mi sembra importante che l’educatore diventi prima che maestro, un esempio visibile ( un testimone mi verrebbe da dire) in cui il ragazzo possa rispecchiarsi in tutta quella serie di attività concrete che formeranno il pomeriggio del Doposcuola. Scrivere e leggere accanto ai ragazzi e in questa vicinanza far percepire la propria conoscenza dei libri, giocare e saper trasformare in gioco messaggi altrimenti improponibili e inventarsi attività pratiche (lavorare nell’orto, cucinare o gite turistiche) che facciano scoprire il senso e il valore di quanto si legge sui libri, sono solo alcune soluzioni in cui bisogna perfezionarsi per appassionare il ragazzo al mondo della scuola. Ma non sono le uniche. Accanto a queste, l’attività principale, potrei dire lo spirito di questo Doposcuola, è nel tentativo di far percepire al ragazzo il valore che essere soprattutto buoni è più importante che essere belli, forti e competitivi; il valore della collaborazione, dello stringersi la mano prima e dopo una partita e di tutti quei gesti che simbolicamente ci ricorderanno il legame di amicizia grazie al quale ci troviamo insieme, dovranno progressivamente, senza moralismi, ritornare ad essere consuetudine quotidiana e abitudine di vita.

Questo progetto nasce ed è promosso dal centro di animazione socio-culturale “Civiltà Etica”, dagli abbonati alla omonima rivista e da quanti la vorranno sostenere.
La merenda pomeridiana offerta ai ragazzi sarà fatta con i prodotti del commercio equo e solidale e dell’agricoltura biologica. Tutto il materiale didattico ( fogli, pastelli, quaderni etc.) è composto dai lavori della Cooperativa “Il Papavero” di Bolzano, che si occupa da diverso tempo della distribuzione e produzione di prodotti ecologici di cartoleria. Per ecologico s’intende un prodotto riciclato al 100%, la cui produzione abbia il minimo impatto sull’ambiente.

Gianluca De Gennaro

Per informazioni:
tel. Centro animazione socio-culturale
“Civiltà Etica” 075-9271421 (con segr. Telef.)
oppure cell. 340-2508591

“Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola. Bisogna essere.”
Don Lorenzo Milani




T U - F U

Tu-Fu è un poeta cinese vissuto nel 800 dopo Cristo. E’ definito il poeta del dolore, perché la sua poesia nasce proprio dalla personale esperienza di sofferenza.
In questa poesia che viene riportata qui, egli parte sempre dalla sofferenza per portare, però, un messaggio di speranza attualissimo ed auspicabile ancora oggi.


Oh! se invece degli strumenti di guerra
per uccidersi, per arrecare dolore, gli uomini,
costruissero attrezzi da dare ai contadini!

Ora sentiamo i pianti
vediamo le lacrime
per i soldati eroici morti.

Se invece delle spade si facessero aratri e altri attrezzi!

Allora vedremmo uomini
che cantando felici,
coltivano la terra.

Allora sentiremmo le risa delle donne
che, felici, raccolgono i frutti
del lavoro dell’uomo

Ma perché in una vita già amara
l’uomo non la addolcisce,
invece di renderla ancora più amara?


Dopo milleduecento anni ci chiediamo ancora perché sperperare risorse immense per strumenti di guerra invece di impiegare queste risorse per alleviare le sofferenze dell’umanità.
E’ così difficile sperare in un mondo senza guerre, senza odio, senza malattie?
E’ così difficile avere fiducia negli uomini?
E’ così difficile sperare in un mondo migliore?

Gianni Vantaggi

 

 


La posta di quattrochiachiere


Ho appena finito di leggere il n. 7 di quattrochiacchiere e voglio farvi i miei più sinceri complimenti per gli argomenti e la qualità con cui vengono trattati. Bravi davvero non mollate nonostante le difficoltà che giustamente e che magari un giorno potrebbero spingere anche me a darvi una mano. Colgo l’occasione per portare un piccolo contributo prendendo spunto dall’articolo di Federica spostando l’attenzione ai bambini, dettata forse anche dall’età dei miei figli.
Un giorno durante l’ora di catechismo, parlando dei dieci comandamenti è emersa una realtà che già da tempo intuivo ma che non pensavo fosse così preoccupante. Parlo della televisione e dei programmi che vengono trasmessi. Infatti durante quest’ora appunto parlando di non uccidere, non commettere atti impuri e non desiderare la donna d’altri è emerso che questi bambini di appena undici anni vengono bombardati quotidianamente e a qualsiasi ora del giorno, anche in pieno pomeriggio quando molti ragazzi possono trovarsi da soli in casa, da immagini di una violenza inaudita e immagini, scusate l’espressione esagerata, ma che io definisco “pornografiche”, e sicuramente prive di buon gusto ed altamente volgari.Sicuramente tutto ciò turba e diseduca fortemente i nostri bambini e la conferma di quanto penso e scrivo l’ho avuta lunedì sera guardando una trasmissione su Rai Due dove si cercava di dare una spiegazione logica ai fatti accaduti a Novi Ligure, e non solo purtroppo. A questa trasmissione erano stati invitati Psicologi, Filosofi, Avvocati, Pedagoghi e anche un Sacerdote il quale dopo aver ascoltato i pareri di tutti ha detto che tutta questa violenza e sesso trasmesso dalla televisione turbano enormemente la psicologia e l’anima dei bambini / ragazzi e che li spinge a non avere più emozioni di nessun genere e soprattutto la cosa più drammatica che non sono più in grado di distinguere il bene dal male. Pensate ogni ora, tra tv private e pubblica, vengono trasmessi 3 delitti. Tutti i presenti hanno riconosciuto che l’analisi del sacerdote era giusta ed ineccepibile. Detto ciò penso che sia importante sul giornalino segnalare sia ai ragazzi sia ai genitori la gravità del problema e magari inserire dei suggerimenti su quali programmi da non vedere e segnalare attività, divertimenti alternativi alla televisione. Anche io grido il mio non ci STÒ ad uniformarmi a questa cultura e a questa mentalità del non si può far nulla per cambiare le nostre abitudini ed il nostro modo di vivere.Un ultima riflessione:pensavo anche a quanti asseriscono che i “preti” sono noiosi, ripetitivi, superati nelle loro “prediche” e consigli; ma alla fine tutti devono riconoscere che i Ministri di DIO, pur essendo essi degli uomini con dei pregi e difetti, con una propria personalità, sono depositari della VERITA’ e che vogliono solamente il nostro bene lasciandoci comunque la libertà di scelta. Dobbiamo soltanto imparare, come ha detto Padre Massimo in occasione delle catechesi tenute a Sant’Agostino nelle quarantore, a non farci condizionare dai nostri sentimenti umani, ma dall’amore di Gesù che vuole soltanto ed esclusivamente il nostro bene. Vi chiedo scusa per il mio italiano imperfetto, ma spero di avervi trasmesso le mie preoccupazioni ma anche la forza di non rassegnarmi, tantè che proprio ieri mattina mentre accompagnavo a scuola mia figlia, alla sua domanda di come possiamo far smettere questi programmi sciocchi, ho risposto che nessuno, soprattutto a noi genitori, ci può togliere il dono più grande che ci ha fatto GESU’: la libertà di scelta e la capacità di scegliere il bene dal male anche se questo delle volte richiede dei sacrifici e qualche sofferenza. Grazie ancora e Buon Natale.

Francesco Piccotti